Dialoghi tra un Lampione e un cittadino qualunque


La notte in cui incontrai per la prima volta il Lampione pioveva. A Milano piove spesso.

Era una serata da dimenticare, come spesso ne avevo in quel periodo, ed ero uscito a fare due passi per schiarirmi le idee prima che un acquazzone mi sorprendesse quando ormai mi ero già addentrato nei meandri della metropoli. Ho scoperto intorno ai sedici anni di essere fondamentalmente inetto a orientarmi, e da allora la mia vita è stata un susseguirsi di smarrimenti perfino in una città che conosco fin da bambino. Quella sera in particolare sapevo solo di aver oltrepassato Porta Romana, ben lontano da casa e dai luoghi che frequentavo abitualmente. Quando sono sovrappensiero cammino molto.

Quando sono sovrappensiero tendo anche a infilare le mani in tasca. Quando sono sovrappensiero tendo anche a dimenticarmi non posso girare con le scarpe di tela sotto la pioggia, perché la suola liscia sdrucciola come una pietrada curling. Non credo ci siano difficoltà a capire dove voglia andare a parare.

Scivolai su una macchia d’acqua a stento qualificabile come pozzanghera e caddi supino sul marciapiede. La mia schiena incassò il colpo, provocandomi una fitta che mi tolse il fiato per diversi secondi. Fu in quel lasso di tempo che, tra gocce di pioggia che mi picchiettavano le guance e un grido soffocato, pensai di essermi rotto qualcosa, o perfino che avrei potuto rimanere paralizzato. E fu allora, prima che potessi verificare tutto ciò, che udii per la prima volta il Lampione.

«Tutto bene?» mi domandò.

Posso immaginare una facile obiezione: non ho detto come parla un lampione. L’unica risposta che io sappia dare è: come una persona normale. A riprova di ciò, non mi accorsi per nulla di aver sentito parlare un lampione. Pensai invece, con un certo sollievo, che un passante di cui non mi ero avveduto avesse notato il mio capitombolo. Imbarazzante, ma quantomeno non sarei morto lì. «Circa. Scusi, chi è che parla?».

«Mi stai guardando».

«Non riesco a vedere nulla, la luce del lampione mi acceca».

Questo potrebbe essere il momento appropriato per specificare dove fossi caduto: direttamente sotto il caldo fulgore giallo dell’unico lampione acceso in una via a senso unico. Il palo da cui era sospeso saliva verticale da terra per poi inclinarsi diagonalmente in avanti e affacciarsi sulla carreggiata. Mi si perdonerà di non averlo precisato prima, ma volevo mantenere alta la tensione narrativa.

«Sì, quello sono io» rispose il Lampione. «Scusa, non volevo accecarti, qualsiasi cosa voglia dire».

Compii due importanti constatazioni: la prima fu che riuscivo a muovere tutte le parti del corpo, quindi non ero destinato a un futuro su sedia a rotelle. La seconda, realizzata con la ritrovata mobilità e con il dolore alla schiena che si attenuava, fu che intorno a me non c’era nessuno.

Nonché che la voce proveniva da qualche metro sopra di me.

Ovvero, per l’appunto, dal lampione.

(Ciò parrà scontato, ma io non avevo il beneficio di un narratore.)

Decisi che non stavo sognando, perché il semplice porsi il problema significa con certezza pressoché totale che si è svegli. Il passo successivo fu scendere a patti con il fatto che un lampione mi stava parlando.

Lo trovai bizzarro, ma non così bizzarro. C’era solo un’opzione verosimile che salvaguardasse la nozione comunemente accettata che i lampioni non parlano: qualcuno doveva aver deciso di giocare uno scherzo con un ricetrasmettitore a un ebete scivolato sul marciapiede. Essendo la voce troppo cristallina per essere filtrata da un apparecchio del genere, esclusi quella ipotesi quasi subito. L’alternativa più credibile a seguire era un lampione parlante.

 Perciò, come è evidente, assumere che un palo di metallo fosse senziente fu un atto di lucido raziocinio.

«Stai prendendo acqua, vieni qua sotto» disse il Lampione. «Non copro granché, ma è meglio di niente».

Rotolai prono e iniziai a trascinarmi verso di lui, convenendo che il suo era un buon suggerimento. Dovendo spingermi con la schiena, riuscii solo a mugugnare qualche parola in mezzo agli spasmi di dolore. «Come fai a parlare?».

«In che senso?».

Mi appoggiai al palo metallico e presi un respiro profondo. «Materialmente. Da dove ti esce la voce?».

«Non lo so. Come fai tu a parlare?».

Ottima domanda. «Beh, ho delle corde della gola». Non avevo mai prestato attenzione alle lezioni di anatomia. «E quando ci passa l’aria…». La Lusvardi era soporifera, non era colpa mia. «Le corde si muovono in un certo modo e creano le parole».

Sapevo di aver vomitato un fiume di cretinate. Mi sarei certamente smentito da solo più avanti, quindi trovai opportuno chiudere con un attestato di buona fede. «Credo».

Incontestabile.

«Che cosa stupida» sentenziò il Lampione.

Mi risentii, per quanto probabilmente avesse ragione. Io non stavo mettendo in discussione il modo in cui parlava, quindi come si permetteva di farlo lui con me? Almeno dalla mia avevo il fatto che tutti gli umani parlano, non solo quelli a cui viene il capriccio. E poi, che cosa poteva saperne un Lampione?

Prima di riprendere la conversazione attesi che la mia colonna vertebrale cessasse di pulsare. La pioggia non accennava a diminuire. «Come sai l’italiano?».

«Tecnicamente potrei chiederti la stessa cosa».

«Tecnicamente proprio no. L’italiano l’hanno inventato gli umani». Con il senno di poi non era esattamente una gran linea di difesa: gli umani avevano anche inventato i lampioni, e di certo non li avevano programmati per parlare. «E poi è una lingua. Tu neanche ce l’hai una lingua».

«Sai con chi saresti andato d’accordo? Con il Lampione Aristodemo. Passava il tempo a farsi domande come queste, ci passava notti intere. E io gli dicevo sempre, ma perché ci pensi? Parliamo. Tanto basta. A che scopo preoccuparsi del come o del perché?».

Una serie di tre colpi di tosse mi impedì di rispondere. Mi ricordai della situazione in cui versavo: pioveva e io ero senza ombrello. Più rimanevo in quelle condizioni più rischiavo una polmonite, e mi sarebbe servita almeno una ventina di minuti per ritrovare la strada di casa. Feci un tentativo di issarmi sulle gambe, trovando che la mia schiena era messa molto meglio di quanto credessi. Non avrei potuto correre, ma camminare era nelle mie facoltà.

«Come va?» mi domandò il Lampione.

«Meglio. Penso di dover andare».

Il bagliore giallognolo che emetteva sfarfallò. «Tornerai?».

«Non lo so, io…». Titubai. Ovviamente sembrerò un rimbambito ad averci pensato su: era un lampione parlante. Strano a dirsi, mentre ero lì mi parve una reazione assolutamente normale. La schiena e la tosse dovevano stare iniziando a darmi alla testa. «Abito lontano. Non so nemmeno dove mi trovo, in realtà».

«Per favore. Mi sento molto solo ultimamente».

Sospirai. Sono sempre stato uno facile da far sentire in colpa. «Va bene. Cerco il nome della via e un giorno di questi torno».

«Grazie».

Questo fu, a grandi linee, il mio primo incontro con il Lampione.


Mantenni la promessa solo il lunedì successivo, avendo combattuto nel resto della settimana precedente un principio di influenza risultato della mia scampagnata a testa scoperta sotto la pioggia. Anche quella sera diluviava, ma ebbi l’accortezza di portarmi un ombrello. Verificai così che non avevo sognato nulla: il Lampione esisteva.

La cosa mi affascinava. Certamente non potevo essere il primo a parlare con un lampione se almeno uno di loro era in grado di farlo, però ero di sicuro il primo tra le persone di mia conoscenza. Avvertii quasi un dovere morale di andare più a fondo potessi sulla faccenda.

Iniziai a fargli visita sempre più spesso, e serata dopo serata scoprii qualcosa in più su di lui. Ad esempio una volta non era solo: tutta la via in cui ero scivolato era stata popolata da suoi amici, anche loro in grado di parlare, ma pare si fossero spenti uno a uno. L’ultimo, il Lampione Aristodemo, se n’era andato da poco più di una settimana. Il mio Lampione gli era molto affezionato e, sentendosi solo, aveva deciso di parlare con il primo umano che non gli fosse parso andare di fretta (era molto preoccupato a riguardo). Sventuratamente, pareva che gli umani che passavano di là fossero sempre di fretta.

Nel frattempo avevo cercato su Wikipedia che cosa fossero effettivamente le corde vocali. Tanto per cominciare non sono nemmeno corde, sono membrane stiracchiate nella laringe; e poi sono soltanto due. Non riuscii a capire come facessero a produrre la voce se non a spanne, perché come al solito la Wikipedia scientifica è pleonasticamente rivolta a chi ha già studiato l’argomento. Raggiunsi però la ragionevole certezza che i lampioni le corde vocali non le hanno.

Il Lampione, dal canto suo, non aveva svolto neppure un briciolo di ricerca su come facesse lui a parlare, il che fu onestamente parecchio scortese. Sembrava che le sue parole della prima sera non fossero un modo di dire: davvero non gli interessava il perché delle cose. Non sapeva neppure dirmi se tutti i lampioni sapessero parlare o se fosse una caratteristica esclusiva di quelli della sua via. Nel dubbio provai ad attaccare bottone con qualche lampione nel mio circondario, ma se sapevano parlare non erano granché socievoli.

D’altronde anche il mio Lampione aveva deciso di parlare agli umani solo dopo che tutti i suoi compagni si erano spenti. E a tal proposito, pareva particolarmente restio ad approfondire quella parte.

Io, pur assetato di conoscenza su qualsiasi cosa riguardasse il suo mondo, non gli misi pressione. Per quanto non lo stessi notando, come io scoprivo di più su di lui anche lui scopriva di più su di me. Anche io mi sentivo solo in quel periodo, e mi aprii a quel prodigio della natura sul mio lavoro di consulente finanziario in banca, sui miei reumatismi e su pensieri che mi tormentavano che non mai avevo raccontato a nessuno.

Senza che me ne accorgessi, quel Lampione e io stavamo diventando amici. Del resto, da una certa età in poi non ce ne si accorge mai.


Dalla smorfia che Nicolet cerca di nascondere, direi che non si aspettava la mia barba incolta.

«Hai deciso di tornare?». Ho provato questa scena almeno cinque volte negli ultimi due giorni, e ora scopro che non riesco nemmeno a distogliere lo sguardo dallo zerbino.

«No».

Vorrei sbatterle la porta in faccia, invece faccio un passo indietro per farla entrare. Noto che sussulta varcando la soglia; immagino sia per il tanfo, visto che a memoria non ho aperto finestre da quando se n’è andata. Per una che le chiudeva giusto quando nevicava, perché tanto era abituata al freddo olandese, dev’essere un bel colpo.

«Resto poco, tranquillo».

Chiudo la porta, ma non faccio scivolare il chiavistello nella gola. «La casa è anche tua» dico alzando le spalle. Non è granché, ma voglio almeno provare a fingere che la sua decisione sulla permanenza mi lasci indifferente. «Perché sei venuta? Hai lasciato qui qualcosa?».

«Ho parlato con Valcasali delle pompe funebri». Nicolet si ferma solo a qualche passo dall’ingresso, come se avesse paura di inoltrarsi troppo nell’appartamento. Si volta, e lei sì che riesce a guardarmi negli occhi. «Avremmo concordato il funerale per dopodomani. Sarebbe alle cinque, ma nel caso faresti meglio a venire un po’ prima per…».

«Potevi telefonarmi».

«Volevo anche vedere come te la passavi».

Allargo le braccia. Non so se l’ha capito, ma doveva essere un: e allora? Sto abbastanza di merda per i tuoi gusti?

«Giovedì va bene, quindi?» incalza lei.

«Come vuoi». Di nuovo, ho come l’impressione che il tono menefreghista non basti a bilanciare la macchia di caffellatte sulla camicia.

Nicolet riapre la porta senza neppure aspettare che sia io a farlo. «Cerca di rimetterti, per piacere. Non vorrei vederti così in chiesa».

«Non sarei così se non mi avessi lasciato».

«Smettila, non ti ho lasciato. Ho solo bisogno di capire se posso andare avanti dopo quello che è successo».

«Ah». Spero che il mio sorriso appaia sarcastico come dovrebbe. «Giusto, dimenticavo».


«Come mai oggi parli poco?».

Trovai alquanto carino che il Lampione si preoccupasse per me. Quella sera lo avevo trovato meno luminoso del solito e avevamo intrattenuto una conversazione leggera che neppure rammento, nondimeno si era reso conto che qualcosa non andava. È sorprendente quanto di ciò che riteniamo umano non sia per nulla una nostra esclusiva. «Mi hanno licenziato».

«Cosa significa?».

«Alla banca non piaceva il mio lavoro di consulente finanziario, quindi mi lasceranno a casa e prenderanno qualcun altro». Annebbiato dal risentimento non lo ammisi di fronte al Lampione, ma la banca aveva ragione. Erano almeno due settimane che arrivavo alle undici in ufficio, ignoravo la maggior parte delle telefonate e parlavo con i clienti come si fa con i cugini di terzo grado vagamente razzisti che attaccano bottone a Natale.

«Cos’è un consulente finanziario?» domandò il Lampione.

«Uno che aiuta altre persone a usare bene i loro soldi».

«È molto gentile da parte tua».

Ridacchiai. Effettivamente a semplificarlo in quel modo sembrava quasi un atto di carità; l’imbroglio era nelle sfumature. «In realtà quello è ciò che diciamo di fare. Nei fatti vogliamo solo che le persone investano il più possibile in modo da guadagnare sulle commissioni. Che siano felici non importa a nessuno».

«Oh. Questo non è molto gentile».

«È uno schifo».

«E perché lo fai se non ti piace?».

Mi appoggiai al muro dietro al Lampione. Tutt’ora non ho idea se fosse in grado di vedermi, e se sì da quali angolazioni, ma quello fu indubbiamente un goffo tentativo di nascondermi a lui. «Perché ho sempre avuto paura del futuro, immagino. Sono sempre stato troppo attaccato alle certezze».

«Non capisco».

«Quando sono uscito dal liceo credevo che tutto ciò che volevo fossero soldi, una vita stabile, tempo libero per fare quello che mi pare e così via. Credevo che mi sarebbe bastato essere un gregario a cui è richiesto il minimo sforzo possibile e che sarei stato felice, perché a differenza degli altri mi atteggiavo da pragmatico anziché da sognatore. Invece sono risultato molto meno pragmatico di quanto mi aspettassi, nonché un altezzoso idiota. Cosa me ne faccio di tutto il tempo libero se non ho una vita al di fuori del lavoro?».

«Continuo a non capire il tuo problema» disse il Lampione con una certa inflessione di dabbenaggine. «Va bene, hai sbagliato. Capita a tutti. Non puoi rimediare? Andare a fare quello che ti piace?».

«Non lo so». Fu la risposta più onesta che riuscii a dare. Le sue erano valide obiezioni, e io non avevo di che controbatterle. «È che… Quando sei piccolo hai una certa idea di come dovrebbe andare la tua vita. È una specie di binario: studi, ti innamori, trovi un lavoro, ti sposi, vai in pensione. Puoi muoverti su questo binario, rimodellare un poco le rotaie e fare qualche scambio lungo il tragitto, ma quello è il modello secondo cui vivere. Non ti dicono mai cosa fare se sbagli. Cosa succede se ti rendi conto troppo tardi che i soldi non sono la motivazione di roccia che credevi? Cosa fai se a quarant’anni capisci che vuoi lasciare un segno, fare qualcosa che ti piaccia davvero, e non puoi perché da giovane sei stato stupido? Cosa fai quando sei solo e non sai da dove ripartire?». Sospirai, scivolai lungo la parete e mi accovacciai al suolo, troppo stanco per stare in piedi. «Ho paura di essere fuori tempo massimo. Ho paura di aver sbagliato e di non avere più scambi per rientrare nel binario. Mi rimane ancora almeno qualche decennio da vivere e non so cosa farmene».

Mi attesi una replica, ma il mio amico non parlò. Spesso leggo che uno dei tratti del buon ascoltatore è non ribattere a uno sfogo, ed è una posizione che non ho mai capito. Avrei avuto bisogno che qualcuno mi prendesse a schiaffi, che mi facesse rinsavire, non di tacita correità. Lasciare da solo un uomo depresso è l’idea più idiota che riesca a concepire.

La luce del Lampione si rarefece, lasciandomi quasi al buio. «Sei proprio come il Lampione Aristodemo».

Mi sentii in un certo senso tradito, e quella notte non parlammo più. Nella mia ingenuità mi sarei atteso parole di conforto, un consiglio, perfino un punto di vista nuovo, ma al mio amico quei dilemmi apparivano superficiali e sterili. Con il senno di poi, forse non mi sarei dovuto aspettare granché su argomenti a lui così lontani come il timore di una vita sprecata. Cosa poteva saperne un Lampione?


Mi servì del tempo per scegliere le parole giuste. Anche quando finalmente fui convinto di ciò che dovevo dire, trascorsero due sere prima che trovassi il coraggio. Alla terza, sotto un cielo terso, un asprigno odore dicembrino nell’aria e un cappotto mimetico indosso per combattere il canto del cigno dell’inverno, mi costrinsi a vuotare il sacco.

«Va tutto bene con la luce?».

«Che vuoi dire?» domandò il Lampione.

Speravo non l’avrebbe fatto. Speravo che avrebbe avuto la dignità di affrontare il problema, perché non poteva non essersene accorto. Invece doveva rendermi le cose ancora più difficili. «La tua luce. È più debole rispetto a quando ti ho incontrato, e a volte va e viene».

«Non è vero».

«Certo che lo è. Nel caso tu non l’abbia notato sei l’unica luce qui. È molto facile accorgersene».

«Penso di conoscermi meglio di quanto tu p—-».

Si interruppe, e la sua lampada si spense. Il buio non durò più delle altre volte, un secondo o anche meno, ma quando si riaccese il Lampione era ammutolito, e tale restò per parecchio. Di primo acchito pensai che l’essere smascherato davanti a me l’avesse fatto sprofondare nell’imbarazzo, ma mi accorsi presto che la questione era diversa.

Era la prima volta che gli succedeva nel mezzo di una frase. Credo si fosse reso conto solo in quel momento che il problema evadeva il suo controllo, e credo che la cosa lo terrorizzasse.

Non dissi nulla. Attesi che il mio amico scendesse a patti con la sua epifania. Finalmente, dopo diversi minuti di riserbo, parlò. «Mi sto spegnendo».

Non posso fingere che non lo stessi quantomeno sospettando, ma sentirlo da lui fu un’altra cosa. Fu quando mi resi conto che era reale, che stava accadendo.

«È quello che è successo a tutti gli altri Lampioni» proseguì. «Prima si trattava di tremolii che quasi non si notavano, poi sono peggiorati fino a spegnersi. Sta per succedere anche a me».

«Com’è possibile?».

«È così che va». 

Il tono lapidario, del tutto antitetico al suo consueto candore, mi colse impreparato. Di solito dovevo abbassare il mio livello per adattarmi al suo vocabolario ristretto, ma questa volta era lui a guidare me. «Dimmi come aiutarti».

«Non puoi».

Mi venne voglia di tirare un cazzotto a quel palo di metallo.

Posso essere sincero? Non ne vado fiero, ma comprendo le mie ragioni di allora. Dopo la sua totale incompetenza nell’aiutarmi durante notte più buia della mia vita, chi era per decidere cosa io potessi o non potessi fare? Per quanto fosse in grado di parlare e offrisse un punto di vista talvolta affascinante sul mondo, un lampione era e un lampione restava. Non avrei dovuto aspettarmi nulla di più: questo significava perdonarlo per come mi aveva trattato, ma anche smetterla di dargli corda nemmeno fosse un luminare. «Certo che posso. Se mi brucia lo stomaco la Roncaioli mi può prescrivere il suo schifo di Anacidol. Se sto male per il licenziamento vado da lei e sento se prendere antidepressivi. È così che funziona».

«Noi non abbiamo quelle cose».

«Siete macchine!» sbraitai, con un timbro più acuto di quanto avrei preferito. Non poteva essere serio. Stava morendo, ecco cosa. Stava morendo e non sapeva cosa diceva. Ognuno del resto reagisce a modo suo. «Noi vi abbiamo inventati. Chiamo un tecnico e ti ripara! Cosa c’è di così difficile?».

«Io non sono una macchina».

«Certo che lo sei, cazzo!».

Non sono mai stato avvezzo al turpiloquio, l’ho sempre ritenuto la risorsa di chi ha esaurito le argomentazioni. Mi sorpresi quindi che proprio il serenissimo Lampione mi avesse spinto così lontano dal mio temperamento abituale. Inspirai per ritrovare la calma. «Lo siamo tutti. Lo era anche il tuo amico, per questo passava il tempo a farsi quelle domande che credi tanto stupide. Nessuno di noi riesce a capire perché se siamo macchine non ci comportiamo come tali».

«Io non sono una macchina».

«E invece sì. Solo che pensi che se non ti fai domande, se accetti ciò che ti arriva per come è senza chiedertene le ragioni, allora non dovrai fare i conti con quello che sei. Così inizi a pensare che forse sei invulnerabile, che sei più al sicuro degli altri perché non puoi concepire la tua inesistenza. Che non parli perché le corde vocali vibrano, parli perché Dio o il destino ti hanno fatto così». Il vento proveniente da nord sferzò il mio volto in un guizzo di intensità. Mi strinsi nel cappotto. «Lo so benissimo perché anche io ero come te. Ma non funziona così. Se anche vuoi far finta di essere speciale, resti sempre un groviglio di cavi come io resto un groviglio di vene e arterie».

«Ascolta…».

«E sai cosa? Non ti permetterò di fare così, perché a te potrà andare benissimo di morire, ma a me no. Non voglio che tu muoia. Ti aggiusterò, che ti piaccia o meno».

Su quella conclusione che non sapevo io stesso se fosse una promessa o una minaccia, mi incamminai per risalire la via e tornare a casa.

«Aspetta. Per favore, aspetta!» mi gridò dietro il Lampione. La sua voce aveva perso ogni concisione e ora tradiva solamente paura, ma io non mi voltai.

E non mi resi conto che la luce del mio amico ormai era poco più di un lumicino.


La mia mano destra è occupata dal portafogli. Premo con il palmo sinistro il taccuino contro lo scaffale delle gomme da masticare per tenerlo fermo, mentre con la penna stretta alla bell’e meglio tra pollice e indice scarabocchio un appunto. È illeggibile, spero che l’idea non mi sfugga di mente durante il tragitto dal supermercato a casa.

Questi momenti sono i soli in cui la pressione al torace mi dà tregua.

«Scrivi?».

Sussulto. Ero rimasto alla signora Giuliana che non trovava la carta di fedeltà, e ora di lei non c’è neppure traccia. Martino, da dietro la cassa, sta già battendo gli ultimi wafer.

«Sì, ma nulla di che. Mi fai anche un sacchetto?».

«Subito».

Inizio a sfogliare le banconote all’interno del portafogli, ma un cenno della mano di Martino mi interrompe.

«Ehi, Lisca, lascia stare. A posto così».

«Perché?» chiedo, anche se lo so benissimo il perché. Anzi, a essere onesti non capisco fino in fondo come mai gliel’abbia chiesto comunque. Forse sono solo un quarantenne astioso che vuole vedere gli altri in difficoltà quanto lui.

Martino finisce di imbustarmi la spesa e fa scivolare il sacchetto rigonfio sul fondo della cassa. «Non ho parole per quello che è successo. Le volevamo tutti molto bene».

Solo ora mi rendo conto che tutti mi stanno osservando. Le due vecchie in fila dietro di me, il commesso sulla soglia del retrobottega, perfino il buttafuori all’ingresso, tutti mi fissano come aringhe crude schierate nel ghiaccio del banco frigo. Se resto un istante di più le bottiglie di cassis dietro alla cassa non faranno una bella fine. Infilo portafogli e taccuino nelle tasche posteriori, afferro il sacchetto per il manico ed esco dalla superette evitando gli occhi di tutti. Per fortuna nessuno commenta ad alta voce.

È una giornata senza nuvole, e questo mi innervosisce ancora di più, perché a Milano piove spesso ma oggi ovviamente c’è il sole. C’è sempre il sole quando vorresti morire.

Arresto il passo dopo una decina di metri e tiro un pugno contro il muro irto di granuli del palazzo più vicino.

Ne tiro un altro. I dorsi delle dita cominciano a pulsare, ma non mi fermo. Continuo a tirare pugni ancora e ancora, finché le nocche spellate non sporcano di sangue l’intonaco. E per buona misura vado comunque avanti.

Come se servisse a qualcosa.


Mi vergognai molto di me stesso quando, un giorno dopo la mia sfuriata, mi ripresentai davanti al Lampione.

«Sono felice che tu sia tornato» mi disse. Anche il suo tono esprimeva contentezza.

Ciò mi fece sentire ancora di più uno schifo. Non è per nulla facile odiare qualcuno quando quel qualcuno sembra del tutto incapace di risponderti per le rime. Finisci per ridirigere quell’odio su te stesso, perché sei quello che non riesce a mantenere il controllo. Sei l’immaturo. La cosa, almeno personalmente, mi è sempre stata fonte di frustrazione. «Mi dispiace. Io, ieri ho… Non volevo».

«È tutto a posto. Hai cambiato idea?».

Presi un respiro profondo. «No».

«Oh».

«No, però ascoltami, ci ho riflettuto con calma. Si può risolvere. Chiamerò il comune, gli dirò di ripararti. Anzi, vi farò riparare tutti».

«Perché devi andare contro lo svolgimento naturale delle cose?». Da come parlò, il Lampione non mi parve seccato o deluso: mi parve solo stanco. Ai tempi non ci pensai, ma sospetto che volesse trascorrere gli ultimi giorni che gli rimanevano in ben altro modo.

Invece, idiota com’ero, persistetti nel rubargli quel poco tempo residuo in una crociata egocentrica persa in partenza. «Perché me lo merito. Dopo tutto lo schifo che ho passato penso di avere diritto a un minimo di risarcimento dall’universo. Non è possibile che tutto quello che sa fare sia procurarmi un cappio. Non lo accetto. Se non mi fa aggiustare la mia vita può almeno lasciarmi aggiustare te».

«L’universo ha già dettato le sue regole. Non possiamo cambiarle in corsa. Dobbiamo conviverci e fare del nostro meglio finché ne abbiamo le possibilità».

«È esattamente quello che sto cercando di fare» risposi. «Finché l’universo non deciderà di farmi investire da un’auto, io sono libero di fare ciò che voglio. E poi se questo è il tuo punto di vista non capisco perché ti opponi. Più tempo ti faccio guadagnare meglio potrai fare, no?».

«Però sappiamo entrambi che non è sempre vero, giusto?».

Un nodo alla gola delle dimensioni di un nocciolo di pesca mi annunciò che avevo ufficialmente perso.

Fino a quel momento mi ero aggrappato alla convinzione di essere quello che ne capiva di più. Per conciliare quella certezza con l’ovvietà che il Lampione stava vivendo quei problemi e non io, pensavo forse ingenuamente che qualsiasi malattia lo affliggesse lo stesse invalidando anche nella mente, o qualsiasi equivalente fosse a lui in dote. Fu un rozzo tentativo di giustificare la mia supponenza.

Tuttavia il Lampione ricordava la mia confessione, quella della mia notte più buia che credevo nemmeno avesse ascoltato fino in fondo. Se ciò mi scaldava il cuore, d’altronde fu la prova che non avevo davanti un povero pazzo incapace di intendere e volere: avevo davanti una creatura lucida a cui io importavo. E io non avevo il diritto di insistere per cercare di rovesciare una decisione che quella creatura lucida doveva aver sofferto.

Quella fu la mia resa. Mi appoggiai al suo palo con la spalla destra e smisi di combattere.

«Perché non vuoi che ti aiuti?».

«Perché so che non puoi. Dentro di me non sento cavi che sfrigolano. Non sento interruttori inceppati o filamenti spezzati». Il mio amico si fermò, credo proprio per riuscire a trovare le parole giuste. «Sento la mia luce che se ne va. Non è la macchina che si sta rompendo, sono io. Non so come spiegartelo, ma lo sento. Non è qualcosa che voi umani sappiate aggiustare».

Un clacson strombettò due volte in lontananza. Di solito in quella strada i rumori non arrivavano mai. «Come puoi saperlo?».

«Perché ho visto te».

Ebbi la vivida impressione che il Lampione, attraverso la sua maschera di vetro e fusibili, mi stesse rivolgendo un sorriso compassionevole.


La parte peggiore del funerale è la bara. A parte le due figlie di Ambra, praticamente tutti i presenti hanno già assistito alle onoranze funebri di qualcuno. Adesso che è stata trasportata al centro del transetto, anche chi come me non ne è pratico se ne rende conto.

È troppo piccola. Un cadavere adulto non potrebbe mai entrarci. Ogni volta che i miei occhi vi si posano sopra, una stretta al torace mi ricorda perché siamo qui.

Sono certo che anche Nicolet la avverta mentre sale sul pulpito per l’elogio funebre. I fasci di luce entranti dalla coppia di finestre ai lati dell’abside la fanno sembrare protagonista di un quadro biblico, perché naturalmente anche oggi c’è il sole.

«Vi ringrazio per essere venuti».

Non ha nessun foglio, deve essersi imparata il discorso a memoria. Nonostante voglia spezzarle le gambe per come mi ha trattato, non posso non ammirarla. Salire all’altare e affrontare da sola quell’inferno senza nessuno accanto… Mi brucia accettarlo, ma io non ce l’avrei fatta.

«Ho pensato molto a cosa dire. Alla fine ho concluso che con voialtri potrò parlare ancora a lungo. Perciò in questa occasione vorrei rivolgermi a te, Chiara».

Reprimo a fatica un conato di vomito. Non ho più sentito quel nome pronunciato ad alta voce da quando sono uscito dall’ospedale. Per sette anni ho dato per scontato il suo suono, urlandolo quando i wafer sparivano misteriosamente dalla credenza e sussurrandolo quando era ora di svegliarsi per scuola.

Sono bastati cinque giorni per scordarmi quanto mi piaceva il modo in cui schiocca sulle guance. Pensare che Chiara diceva che da grande l’avrebbe cambiato in Selena.

«Sei stata la parte migliore della mia vita. Ricordo quanto eri piccola nella culla dopo il parto, e ricordo quanto in fretta hai smesso di esserlo. Ricordo come il tuo corpicino è diventato quello di una splendida bambina. Ricordo la tua prima parola a un anno e mezzo. Pigra com’eri, ti prendesti il tuo tempo».

Alzo lo sguardo al crocifisso. Nonna Camilla diceva sempre che nei momenti veramente difficili avrei capito l’importanza della fede, ma io non vedo nulla. Il Cristo è sempre la stessa sagoma di legno, sempre troppo distaccato e sereno per uno a cui hanno inchiodato mani e piedi. Uno così dovrebbe capire ciò che provo?

«Quando ti ho accompagnata al tuo primo giorno di asilo non te ne sei accorta, ma avevo gli occhi umidi. Era la prima volta che ti lasciavo a qualcun altro dopo che per tutto quel tempo eri stata solo mia e di Luca».

E allora, nonna? Dov’è il tuo Bambin Gesù? Dov’era il Bambin Gesù quando io e Nicolet facevamo i turni in ospedale? Dov’era il Bambin Gesù quando Chiara mi chiedeva se i capelli le sarebbero ricresciuti? Dov’era il Bambin Gesù in quella notte di neve di febbraio in cui ha provato a stringermi la mano e ho sentito la debolezza della sua presa, così leggera che una folata di vento me l’avrebbe portata via e ho capito, anche se i dottori dicevano di non aver ancora provato tutto ho capito che quell’estate non sarei andato con mia figlia al mare a costruire castelli di sabbia, a metterle i braccioli, a spalmarle la crema sulla schiena? Dov’era il Bambin Gesù mentre mi sforzavo di non piangere per non farla preoccupare? Dov’era, nonna? Dov’erano tutti?

«Avrei voluto accompagnarti a tanti altri primi giorni. Avrei voluto essere con te al tuo primo ragazzo o alla tua prima ragazza, alla notte prima del tuo esame di maturità, alla tua laurea, al tuo matrimonio. Se quel brutto male non ci fosse mai stato, avrei—-».

Mi alzo in piedi. Nicolet si interrompe. Ci guardiamo. Sembra implorarmi silenziosamente di non guastare quel momento, ma non me ne frega nulla.

«Brutto male? Fai sul serio? Ti fa paura dire cancro? Pensi che nessuno qui lo sappia? Pensi che la riporterà indietro? Chiara non si merita nulla di meglio di quella frasetta del cazzo?».

Gli occhi di mia moglie sono così misericordiosi. Sono sicuro che anche quelli seduti dietro hanno quello sguardo. Compatiamo il povero Luca, non ha retto il colpo. Ah, signora mia, sono cose che non si sanno finché non le si vive.

«Kutwijf». È l’unico insulto in olandese che conosco, Nicolet lo usava sempre per la direttrice del suo reparto. Ovviamente riesco a darle della troia solo se gli altri non possono capirlo.

Per poco non inciampo nell’inginocchiatoio mentre mi alzo dalla panca. Quando inizio a vergognarmi del mio comportamento sono già a metà strada verso l’uscita della chiesa.

Un po’ troppo tardi per tornare indietro e far finta di nulla, eh?

Mi guardano tutti, come ieri al supermercato. Ma stavolta li affronto, li scruto negli occhi uno a uno mentre scendo lungo la navata centrale. E uno a uno abbassano lo sguardo sulle panche di legno, da codardi quali sono.

Esco. Nel giardino antistante la basilica spira una frescura che porta con sé quel profumo nostalgico tipico dei primi giorni di primavera. Fa più caldo che all’interno, quindi staziono all’ombra del nartece e slaccio i bottoni della giacca.

Il portone cigola di nuovo come quando l’ho aperto io. Mi volto giusto in tempo per vedere mio padre che mi ha raggiunto qui fuori.

L’ultima volta che l’ho visto in abito nero è stato dieci anni fa per il mio matrimonio. Rispetto ad allora le rughe sul suo viso sono più scavate e la barba si è imbianchita. Prima della diagnosi di Chiara il mio incubo più frequente era vederlo collassare con la mano premuta sul petto.

Vorrei che mi sgridasse, che mi urlasse in faccia di chiedere scusa. Invece rimaniamo in silenzio a guardarci.

Poi papà apre le braccia e io sprofondo nella sua spalla, impregnando di lacrime il bavero ormai sfilacciato. Piango nella sua stretta come quella volta che Mirko e Renzo mi rubarono gli Stabilo alle elementari, come quella volta che Marina mi lasciò il giorno prima dell’interrogazione su Montale, come quella volta che la banca mi licenziò tre mesi dopo la nascita di Chiara.

Questa sono certo sia la peggiore di tutte, ma forse lo pensavo anche delle altre.


La notte in cui vidi per l’ultima volta il Lampione pioveva. Quando è inopportuno a Milano piove sempre.

Non fu necessario che il mio amico mi informasse che la fine era vicina. Il cono di luce da lui proiettato era ormai a malapena grande abbastanza da contenermi, e la sua tinta giallo vivo aveva lasciato il posto a un pallore malaticcio simile a quello di una lampada al neon. Mi ero accucciato sotto di lui, anche questa volta senza ombrello, e goccia dopo goccia vedevo il suo chiarore affievolirsi gradualmente. Si sarebbe detto che volesse spegnersi con grazia.

Per molto tempo nessuno dei due parlò. Non so perché il Lampione tacque, ma io non trovavo nulla da dire. Dopo le ultime burrascose notti, quello sembrava solo un buon momento per trascorrere senza parole i nostri ultimi momenti insieme in compagnia dei tuoni, due sagome nella tempesta.

«Secondo te cosa succede dopo?» domandò finalmente il Lampione dopo quelle che mi parvero ore. Gli fui grato per essersi caricato sulle spalle il fardello di rompere il silenzio.

«Secondo te?». Alzai il capo verso la sua lampada. Non era neppure più in grado di abbagliarmi.

«Non lo so. Non me lo sono mai chiesto».

Reclinai la testa sul suo palo metallico. Credo che anche parlare fosse ormai uno sforzo non indifferente per il Lampione, perché la sua luce tremolava a ogni parola. «E secondo Aristodemo? Lui cosa ne pensava?».

«Lui diceva che dopo esserci spenti saremmo stati liberi di muoverci. Non saremmo più stati vincolati alla strada e avremmo potuto esplorare la città e forse anche oltre».

Sorrisi. «È una bella prospettiva».

«Però è stupida, vero? Non è possibile che succeda».

«Perché no?» ribattei abbassando lo sguardo. «Non ho la minima idea di come tu possa esistere. O come possa io esistere, per la verità. Come possiamo escludere ipotesi su ciò che non comprendiamo?».

Credo che il Lampione fosse stato rinfrancato da questa risposta. Io di sicuro lo fui, perché consolò prima di tutto me. A chi non farebbe piacere credere che ci sia qualcos’altro oltre a questo mondo, quando in questo mondo le cose vanno così male?

Fu qui che avvertii i miei occhi farsi umidi. A fregarmi non fu l’idea che il Lampione non ci sarebbe stato più; fu la consapevolezza che, con ogni probabilità, nulla di tutto quello che mi aveva raccontato si sarebbe avverato. Non ci sarebbe stato alcun viaggio dopo lo spegnimento. Non ci sarebbe stata neppure un’interminabile tenebra senza uscita. Non ci sarebbe stato nulla. Io sarei andato avanti e lui no, e nient’altro.

«Sono felice di averti incontrato» disse il Lampione.

Le lacrime pesavano sulle palpebre come macigni, ma mi rifiutai di lasciarne scivolare anche solo una giù per il volto. Non davanti a lui. «Anche io».

«Posso chiederti un favore?».

Annuii. «Quello che vuoi».

«Potresti chiudere gli occhi?». La sua voce, ora un fischio appena udibile, aveva una dolcezza che prima era assente, o che forse non avevo notato. «Non voglio che tu mi veda mentre succede».

Accettai la richiesta. Lo feci per fargli un favore, anche se ora mi rendo conto che era lui a voler fare un favore a me, risparmiandomi il dolore di guardare. Le mie ciglia calarono come un pettine sulle lacrime raccolte lungo l’orlo degli occhi, e qualcuna di queste ultime ne approfittò per sottrarsi alla presa e colare lungo le guance. Tutto ciò che ero in grado di vedere a palpebre serrate era un fondo buio tinteggiato da sfumature arancioni.

All’inizio altro non vi scorsi che una poltiglia informe. Poi iniziarono a emergere contorni, sagome, e infine forme vere e proprie in cui riconobbi quei caratteristici palazzi color biscotto di cui Milano è piena. Li vidi abbassarsi sotto l’orizzonte e mi resi conto che non erano loro a farlo, ero io che mi alzavo e volavo, contemplando la macchia di edifici estesa fino alle periferie, e le Alpi sul fondo così distanti da sembrare un cartonato. Tutto monocolore, sfumato e sporco come un acquerello, eppure così vivo…

E sperai che il Lampione Aristodemo avesse ragione, che davvero il mio amico avrebbe potuto vedere quello spettacolo, che avrebbe potuto librarsi e magari volare via, via verso altre città che neppure io avevo ancora visto, e che sarebbe potuto tornare da me quando fosse stato il momento e raccontarmi, e portarmi con lui, e mostrarmi il mondo che lui aveva avuto il privilegio di ammirare per primo e poi…

E poi…

Poi l’arancione si spense e rimase solo il nero.

Fu allora che mi venne in mente, in un crudele scherzo delle mie sinapsi, la cosa più importante che avrei voluto dire al Lampione. Sperai che non fosse ancora giunto il momento, che fosse un’interruzione temporanea come le altre volte. Sperai che l’universo mi accordasse almeno un’ultima occasione di parlargli.

Ma il Lampione non si riaccese.

Solo a quel punto, al buio e con il volto imbevuto di pioggia, mi concessi di piangere.


Penso che sia passata una settimana dal funerale, ma non potrei giurarci. In questa casa il tempo non passa mai. Nicolet non è tornata, né mi aspetto che lo faccia dopo il modo in cui l’ho trattata.

Quando gli porto il caffè, papà sta leggendo i fogli che ho lasciato sparsi sul tavolino in salotto. «Non sapevo scrivessi» mi dice.

Appoggio la tazzina davanti a lui e mi siedo dal lato opposto del divano. «Ho iniziato da poco» mi schermisco. E lo so, sto facendo la stessa cosa di cui ho accusato Nicolet, perché sia io che papà sappiamo cosa significa “da poco”, e chi è il Lampione, e tutto il resto, e non ho comunque la forza di dirlo. Ho una scusante legittima: sono un idiota.

«Come inizio non c’è male. C’è anche più umorismo di quanto mi sarei aspettato».

«Mi ha aiutato». Noto che la finestra è aperta. Probabilmente nemmeno mio padre è in grado di reggere il tanfo in cui vivo immerso. «Però non ho un finale».

«No?».

«Sono arrivato al punto in cui il Lampione si spegne, ma non so come proseguire».

«Grazie mille, ero ancora alla seconda notte». Papà ridacchia appena. Poi ingurgita il caffè in un sol sorso, incurante della temperatura. «Non hai idee?».

«Ne ho due in mente. Nella prima il cittadino ritorna nella via molto tempo dopo e la trova disseminata di lampioni accesi. Tutti riparati, schierati uno dietro l’altro e intenti a conversare nel deserto della notte. Si zittiscono alla vista del cittadino e il suo Lampione gli dà il bentornato».

Papà posa la tazzina e annuisce. «L’altra?».

«È quasi uguale. L’uomo torna e tutti i lampioni sono accesi. La sola differenza è che sono tutti muti». Aspetto che ribatta, ma non sembra intenzionato. Lo incalzo «Quale preferisci?».

 «Vuoi che sia completamente onesto?».

«Sì».

«Non mi piace nessuna delle due».

Mi sfugge il mio primo accenno di sorriso da chissà quando. Lo nascondo subito, nemmeno fosse una colpa. «Questa non me l’aspettavo».

«In entrambe le versioni il cittadino non ha spirito d’iniziativa. È rimasto in balia degli eventi e ogni premio o castigo è immeritato. La sua presenza non cambia nulla».

«È quello che è successo. È quello che succede nella vita». Non era mia intenzione, ma il tono della mia voce suona alquanto polemico.

Papà appoggia il mento sul dorso della mano. «Ma non è una buona storia».

«Beh, non posso cambiarla, giusto?».

«Luca, che cazzo stai dicendo?».

Scrollo appena il capo. Mio padre non è quasi mai volgare, d’altronde ho preso da lui, quindi le volte in cui fa eccezione sono un antidoto alle mie distrazioni. Devo dire che ne avevo bisogno.

Ora che ho ripreso a concentrarmi, però, non sembra arrabbiato come credevo. In effetti giurerei che mi stia sobriamente prendendo in giro. «Sei lo scrittore. Chi altri dovrebbe cambiarla?».

Non so per quanto stiamo in silenzio dopo quella frase.

Credo molto.

Credo anche di avere un’espressione davvero stupida stampata in faccia per tutto quel tempo.

«Devo andare. Ambra mi ha chiesto di badare alle due creature». Papà si alza, e io faccio lo stesso. Insieme camminiamo lungo il corridoio all’ingresso. «Ci sentiamo un giorno di questi? Magari vieni a mangiare fuori una domenica».

«Come alle medie. Sarebbe bello».

Ci stringiamo in un abbraccio, completo di quella stravaganza delle manate sulla schiena che gli uomini fanno per preservare la propria illusione di virilità. Aspetto sulla soglia mentre mio padre esce. Lo guardo montare sull’ascensore e scendere giù, giù, lontano da me. Eppure, e la cosa mi sorprende, mi sento meno solo del solito.

Sto per chiudere la porta quando avverto uno spiffero che spira dall’interno della casa. La finestra che papà ha aperto in soggiorno sta creando corrente con il pianerottolo, spazzando via un poco dell’aria stantia che permea l’appartamento. Oggi non c’è il sole, ma l’aroma diffuso è comunque piacevole. Chiudo e blocco il chiavistello, ma vado subito a spalancare la finestra in cucina per ripristinare la brezza.

Inspiro.

È davvero profumata.

Credo che questo pomeriggio scenderò in lavanderia e vedrò di sciacquar via questa benedetta macchia di caffellatte dalla camicia.


Sono trascorsi tre mesi da quando il Lampione si è spento. Ho visitato la via alcune volte da allora, ma né lui né i suoi compagni si sono riaccesi. I palazzi che fiancheggiano il marciapiede sono quasi tutti depositi o fabbriche, quindi dubito che qualcuno farà reclamo per l’assenza di illuminazione pubblica, almeno per un po’.

Non è stato facile. Essendo ormai senza lavoro, la prima settimana senza il Lampione l’ho trascorsa sul divano, uscendo di casa giusto per andare al supermercato all’angolo e non morire di fame. È servito del tempo perché riuscissi a uscire da quella parentesi onirica e riavvicinarmi alla realtà, rendendomi conto che essa non si era fermata con me. Per distrarmi ho svolto qualche ricerca su Internet, ma gli unici risultati alla voce “lampione parlante” sono stati avanzamenti tecnologici nel campo dell’illuminazione stradale e metafore azzardate in racconti dal dubbio valore letterario. Agli occhi della fetta di umanità che si intrattiene nella rete, il mio Lampione non esiste.

Tuttavia non ho intenzione di arrendermi. Se anche solo un Lampione mi ha parlato significa che altri devono esserne in grado. Potrebbero non trovarsi in Italia, o in Europa, ma non è concepibile che tutti gli esemplari al mondo fossero fortuitamente riuniti in una stradicciola disabitata di Milano. Dovunque siano, ho intenzione di partire e trovarli.

La ragione per cui ho trascorso così tanto tempo con il mio Lampione era, almeno in principio, che volevo capire come potesse essere senziente. Credo di poter affermare con discreta fiducia che la cosa non mi interessa più. Come accettiamo più o meno consciamente che gli esseri umani esistono senza sapere come, o perché proprio noi, o se abbiamo un ruolo o siamo frutto di coincidenze, altrettanto intendo fare con qualunque Lampione incontrerò. Al mio Lampione questa decisione sarebbe piaciuta. Lui quella cascata di quesiti esistenziali l’avrebbe definita con pochi arzigogoli “domande stupide”.

Sarebbe banale dire che ironicamente, o per uno scherzo del destino, nonostante io fossi più esperto del Lampione alla fine lui abbia insegnato qualcosa a me. Non credo sia andata così. Non credo vada mai così. Solo ai saggi è elargito il dono di insegnare. Ciò che io e il Lampione imparammo l’uno dall’altro non fu insegnato, fu conquistato congiuntamente a partire da esperienze condivise. Così è come la vedo, perlomeno.

Quando troverò un altro Lampione gli spiegherò la situazione, gli racconterò questa storia e spererò che cedendo alle mie irritanti suppliche accetterà di aiutarmi. Insieme cercheremo di capire cosa ci sia all’origine dello spegnimento e se sia possibile invertirlo. E se così fosse tornerò in quella dannata via dalle pozzanghere scivolose e non ne uscirò finché non sarò riuscito a riportare qui il mio amico. Chissà, forse lui mi avrà seguito per tutto quel tempo a mia insaputa, libero di muoversi nel mondo come il Lampione Aristodemo fantasticava.

A quel punto potrò finalmente dirgli la cosa importante che mi è venuta in mente pochi secondi dopo il suo spegnimento. Mi si perdonerà se non ho intenzione di rivelarla, ma è una questione privata tra me e il Lampione. Comunque, in tutta onestà, non credo sia troppo difficile da indovinare.

Potrei fallire. Potrei non imbattermi in nessun Lampione senziente, o potrebbe non essere in grado di aiutarmi, o potrebbe essere impossibile farlo come è impossibile revocare la morte. In tal caso, spero solo che nel mio viaggio avrò trovato qualcosa che mi faccia dire che ne sarà tutto sommato valsa la pena. Se la fortuna gira, potrei perfino imbattermi in un ultimo scambio e infilarmi a tradimento in un nuovo binario.

Forse il Lampione aveva ragione, forse ci sono cose che non possono essere aggiustate. Ma forse aveva torto.

Del resto, che cosa può saperne un Lampione?