Senza titolo


PROLOGO: MATTINO

La guerra… la guerra non cambia mai.

Il nulla. O forse, sarebbe meglio dire il bianco. Solitamente si tende ad associare il nulla ai due colori eternamente contrapposti, bianco o nero. Dipenderà forse dalla propria visione della vita? Una persona che vede il bicchiere mezzo pieno, immaginerà il nulla come un luogo di eterna pace, immerso nella luce della beatitudine eterna, mentre una persona che vede il bicchiere mezzo vuoto, tenderà ad associare il nulla con l’oscurità perpetua del nero. Ma se è vero che classificare tutto come “bianco o nero” è un errore logico, sarà forse che esistano varie gradazioni di nulla?

Purtroppo, in un mondo improntato all’utilitarismo, e ancora prima alla sopravvivenza, questi pensieri non potevano permettersi il lusso di attraversare la mente del cacciatore. L’unica cosa veramente importante era la preda. Liberare mente e polmoni per annullare completamente la propria presenza… nullificarsi, una sorte tutt’altro che rosea per il cacciatore. Sicuramente migliore di quella che sarebbe spettata al povero malcapitato.

Attendendo con pazienza sopra un’altura, con il sole che picchiava freddamente quasi a giudicare le azioni dei presenti, senza migliorare quella sensazione di gelo che rinchiudeva tra le sue fauci qualsiasi creatura così sfortunata da girare per quelle terre, il cacciatore attendeva. Non sapeva quanto avrebbe dovuto effettivamente attendere, ma non era importante. L’unica cosa che ormai occupava la sua testa, era la preda. Un’ossessione tale da non potergli permettere alcun tipo di distrazione. 

Splash

Qualcosa era uscito dall’acqua. Il cacciatore prese un singolo proiettile dal suo corposo zaino, forse atto a trasportare il corpo esanime della sua preda, e caricò il suo fucile, con una lentezza ed una tranquillità tali da mettere in dubbio la sua sanità mentale. Come poteva uccidere un suo simile, con una calma quasi innaturale? 

La povera vittima era ormai caduta nella trappola piazzata appositamente dal cacciatore. Un pesce, fresco di giornata e messo in bella vista. Il tempo di avvicinarsi e… BAM. Il proiettile sibilò nell’aria, e Sebastiano non fece in tempo ad accorgersene che… 


Si dice che quando si sta per morire, la vita ti scorra davanti agli occhi. Sebastiano ne era consapevole. Fin da piccolo non aveva mai brillato per bellezza, agilità, intelligenza. In realtà, non era completamente negato in nessun campo, era semplicemente mediocre. Questa sensazione di mediocrità aveva pervaso la sua anima. I suoi fratelli e le sue sorelle erano, seppur quasi impercettibilmente migliori. Per Sebastiano, invece, il peso della sua inferiorità si faceva sentire. Ed in questa situazione Sebastiano fu costretto a vivere. Una condizione tale da spingerlo più volte a tentare di suicidarsi. Essere eternamente il termine medio, senza sapore, facilmente dimenticabile, insipido, da non meritarsi neanche un appoggio completo da parte dei familiari.
Un giorno però si accorse di poter usare la sua incredibile mediocrità come un punto di forza. Iniziò ad apparire quanto il più possibile indifeso, costernato, sofferente. In questo modo le persone erano necessariamente spinte a provar pena, o se si vuole usare un termine più elegante, compassione, per lui. 

La vita di Sebastiano divenne quella di un parassita che si cibava della magnanimità, forzata, altrui. Non che gli altri non avessero colpe, nell’indossare la macchina dei benefattori di turno, utile soltanto alla glorificazione del proprio ego.

Come poteva lasciar perdere quel pesce? Se fosse stato beccato sul luogo del crimine dal pescatore, avrebbe semplicemente guardato mogio mogio verso terra, accusando una fame insistente da giorni che l’aveva portato a compiere un atto così vile. Sapeva che sarebbe riuscito a giostrarsi tranquillamente qualsiasi essere vivente. Non era importante, d’altro canto, perché una persona così mediocre come lui non avrebbe attirato neanche le ire dei suoi simili. Al massimo qualche sospiro adirato, ma niente di più. La sua debolezza era il suo più grande punto di forza.

Purtroppo non aveva calcolato che il destino l’avrebbe fatto diventare l’origine di una storia.


…il suo cervello finì a colorare di un rosa gradualmente più acceso la neve circostante.

Il cacciatore scese dal punto sopraelevato, di nuovo dimostrando una tranquillità inquietante, fino ad arrivare ai piedi della sua preda.

Focaccia in realtà non aveva il benché minimo appetito. Eppure non riusciva a smettere di farlo. Cacciare un proprio simile era qualcosa che era costretto, condannato a fare per il resto della sua esistenza. Perché? Beh, non lo sapeva neanche lui. Un giorno un istinto morboso, proveniente dagli antri più reconditi della sua mente, lo spinse ad allontanarsi da *quel* branco di individui, e ritirarsi. Non per il loro bene, ovviamente. Era sempre stato in individuo scontrosissimo, antipatico alla quasi totalità di coloro che finivano per malaugurata sorte ad entrare in contatto con lui. Definito come persona spregevole, il suo allontanamento era stato benvisto da tutti, persino dai suoi genitori che finirono per levarsi un peso dalla coscienza e dal portafoglio, se solo ne avessero avuto uno. 

Focaccia si ritirò non perché non aveva alcuna voglia di causare morte e sofferenza ad i suoi simili.  Semplicemente, odiava doversi sottomettere ad istinti primordiali, forse ancestrali, che sembravano un brutto scherzo giocato da una divinità che l’aveva preso, anch’egli, in antipatia. La parte sana della sua mente si rifiutava categoricamente di cedere ma presto sentì di non riuscire a controllare il suo impulso, e come un prigioniero che si dimena in catene, seppur destinato al patibolo, finì per diventare quella… quella cosa. Purtroppo il suicidio non fu d’aiuto, perché il suo ego gli proibiva categoricamente, quasi come se non facesse veramente i suoi interessi, a farsi fuori. 

Un istinto irrazionale, che era nato dal nero nulla, e che finiva per far scontrare le sue vittime con il candido, bianco nulla della neve.

Alla fine però, scese ad un compromesso. Accettò ciò che sarebbe diventato, a patto di continuare a rimanere da solo, vagando per l’Antartide, appagando il proprio desiderio una volta ogni 7 giorni.
O almeno, pensava di essere sceso a patti.

Un contratto fu siglato, per quanto non c’era carta per attestarlo. Non che sapesse scrivere.

Focaccia aprì lo zaino, strappò un baffetto dalla faccia della sua vittima e lo mise dentro una bottiglia di birra, recuperata nel mare anni or sono. Era un cimelio, per ricordare le vittime della sua ingordigia, e per far pesare la scure della colpevolezza sulla sua testa, ogni volta un filo, o un baffo, di più. 

Se era indubbiamente vero che non avesse fame alla vista di quel cadavere, Focaccia in realtà aveva smesso di mangiare qualsiasi tipo di nutrimento. Forse l’appagamento derivato dall’uccisione, seguito da un disgusto immediato per l’azione, l’aveva portato ad odiare quasi ogni tipo di nutrimento.

Per fortuna, dall’inizio della sua disavventura si era imbattuto in una casa. Forse un Dio malevolo aveva davvero voluto incoraggiare la sua carriera da killer seriale.

Era dispersa nel mezzo del nulla, tant’è che credette si trattasse di un miraggio in mezzo alla tormenta di neve.

In realtà, la casa era reale, ed era una stazione meteorologica. Focaccia fece fuori il suo proprietario, e si impossessò della struttura. Questo meteorologo sembrava avere una passione per le focacce. Ovviamente, erano surgelate e quindi dovevano essere di volta in volta riscaldate. Focaccia riconobbe nell’omonima pietanza, la fine della suo involontario sciopero della fame. Il meteorologo inoltre, aveva comprato un fucile per difendersi, probabilmente, dagli eventuali attacchi di orsi polari nella regione.

E quando sarebbero finite le focacce? Era meglio non pensarci, e vivere alla giornata.

Ed il resto è storia.

In realtà, è proprio da qui che inizia la nostra storia. Unica certamente, ma ciò non rappresenta la caratteristica fondamentale. D’altro canto, se si vuole essere estremamente pignoli, ogni storia ha una componente di unicità. E’ come un vaso di creta. La sostanza è la stessa, è la forma a cambiare di volta in volta.

Il meteorologo pensava di doversi difendere dagli orsi, forse dai lupi.

Sicuramente non si aspettava di doversi difendere da Focaccia, una foca scontrosa che mangiava la focaccia ed andava a caccia. 


CAPITOLO 1: MERIGGIO

Focaccia si sentiva a disagio. Da quando era iniziato un nuovo capitolo della sua vita, continuava a pensare che qualcosa non fosse giusto. Aveva un pessimo presentimento, ma continuava a celarlo a sé stesso perché sapeva che non avrebbe mai posseduto una risposta. 

Quel giorno, come gli altri nel passato e, come pensava, nel futuro, si diresse verso la costa frastagliata dell’iceberg.

Focaccia stava attento ad evitare sapientemente il suo vecchio branco. Essendo una foca abbastanza matura, aveva passato abbastanza tempo con loro da ricordarsi gli spostamenti ciclici sul territorio. 

Questo, ovviamente, lo esponeva ad altri pericoli, ma la sua scommessa con la vita per adesso lo aveva redarguito in modo adeguato.

Come se potesse lavarsi il peccato di dosso, Focaccia si fece il bagno di routine.

Era una foca strana, perché nuotava con gli occhi chiusi, da quando aveva cambiato stile di vita. Non voleva vedere tutti i banchi degli ormai non più gustosi pesci. Sentiva come se un filo della sua essenza si sarebbe persa ad ogni sguardo. Purtroppo, per ragioni di necessità, doveva ogni tanto aprirli per controllare non ci fossero predatori nelle vicinanze, anche se il suo udito si stava via via affinando, o per catturare un’esca allettante per le sue vittime. 

Durante il bagno d’espiazione però, qualcosa di inusuale successe. Focaccia si accorse subito di uno strano rumore, appena tuffatosi. Un rumore… quasi uno scalpitio, aveva turbato la quiete marina. E non si trattava di uno dei saltuari predatori che si spingevano così vicino al ghiacciaio.

Focaccia si accorse preventivamente che qualcosa di strano lo attendeva, ma alla emersione non era decisamente preparato per… qualsiasi cosa si potesse definire quello.

Un cavallo, di un bianco mimetico, cercava disperatamente di tirarsi su, con metà del corpo immerso nella gelida acqua dell’Antartide.

Focaccia rimase paralizzato per qualche momento, ma decise di intervenire. Non aveva perso la sua umanità, se si poteva chiamare in quel modo. 

Con un debole ululato cercò di avvisare preventivamente il cavallo, ma forse a causa dello shock, quest’ultimo non si accorse di nulla. Purtroppo ogni secondo era prezioso, e Focaccia decise comunque di intervenire, spingendo il cavallo sopra la piattaforma di ghiaccio prima che fosse troppo tardi. 

Un nitrito di sbigottimento segnò l’incontro dei loro occhi. Il cavallo non poteva credere ai suoi occhi, ma si fece scappare un risolino ebete. Ne aveva viste un bel po’ di quelle creature, ma continuava a trovarle buffe ad un primo sguardo.

Focaccia non aveva ben capito cosa fosse lui. Era rimasta nell’acqua avendo abilmente intuito che quella specie di orso malformato non era capace a nuotare.

Ma perché aveva deciso di aiutarlo in primo luogo? Una fitta di dolore attraversò la sua testa, quasi come se qualcuno stesse cercando di distrarlo.

Focaccia notò le zampe malandate e sanguinanti del cavallo. Capii subito che qualcosa non andava. Quanta strada doveva aver fatto per arrivare fin lì? E da dove era partito?


Acqua. I cavalli solitamente non sognano. O meglio, così pensava Cavallone. Da qualche tempo però, gli capitava di sognare, sia durante le ore di sonno, sia durante quelle di veglia. Sognava ad occhi aperti.

Una malinconia di vivere l’aveva improvvisamente preso, da un giorno all’altro. Si trovava bene nel suo Ranch eppure non riusciva a smettere di pensare all’acqua. Ma non a quell’acqua che trovava ogni giorno nell’albero incavato vicino alla mangiatoia, Cavallone immaginava l’oceano. Non sapeva cosa fosse, non l’aveva mai visto, eppure continuava a sognarlo, increspato.

Se fosse stato possibile identificare un cavallo ferventemente credente, si sarebbe indicato con assoluta certezza Cavallone. Da quando aveva iniziato ad avere le visioni dell’oceano, si era convinto che fosse destinato a fare qualcosa di speciale.

Invano cercò di convincere i suoi simili, nessuno gli credeva. Eppure tutti lo rispettavano.

Perché? Era un cavallo il doppio grande il doppio del normale. Era il favorito del padrone proprio per quello. Un prodigio naturale, continuava a vincere gare su gare alla contea, alcuni avevano addirittura consigliato di affidarlo ad una equipe di scienziati per il bene della Scienza. 

Purtroppo Cavallone adesso, era diventato un mero pony nelle mani del vero Padrone. Sentita la chiamata provenire dai meandri dell’oceano, un giorno decise di rompere con la sua vita passata, ed inseguire quel suo sogno.

Sarebbe stato possibile? Non era un problema che si era posto all’inizio del viaggio.

Per quasi un mese la sua crociata continuò, quasi senza sosta. Sentiva una voce nella testa, che lo spingeva a continuare lungo una strada che vedeva segnata sotto i suoi piedi. Ed era arrivato, indolenzito ed affamato, al confine del Mondo, o almeno lo credeva tale.

Il suo Dio lo aveva tradito?


Il sole batteva allo Zenith, ma non per questo Cavallone aveva meno freddo di quanto non provasse verso l’alba. 

Focaccia intuì il problema, e decise di farsi carico del poveretto. Di nuovo, era una azione completamente fuori luogo per un misantropo come lui, ma ormai aveva smesso di porsi domande, seguiva malinconicamente il suo destino che sembrava essere stato tracciato.

Un tacito assenso si formò tra i due. Cavallone, in segno di ringraziamento per quell’aiuto, ma ancora stordito dal tradimento del suo Dio, che non solo aveva smesso di sussurrargli la via ma lo aveva anche portato ad una morte quasi certa, aveva deciso di smettere di sorridere in rispetto del suo tondeggiante amico. 

Focaccia dal canto suo, fece intuire con un cenno della testa, di farsi seguire.

Iniziò una marcia tra la neve ed il ghiaccio, verso la sua dimora.


CAPITOLO 2: DOPOPRANZO 

Cavallone si stava avidamente cibando, con il didietro schiacciato in quanto più vicino possibile alla finestra, di piselli, fave, e qualsiasi altro vegetale surgelato che Focaccia aveva trovato nel freezer.

Era stato previdente: conservare ogni tipo di alimento in previsione di una futura guarigione dall’ossessione per le focacce.
Cavallone purtroppo non riusciva ad entrare in casa, ma Focaccia accese la stufa per il bene del suo nuovo amico, spostandola vicino alla finestra.

Si fermò un attimo, mentre cercava di mettere un momento di tranquillità per mettere apposto le idee. Perché aveva pensato a Cavallone come un amico? L’aveva pensato lui o qualcun altro?
Chi era che, da qualche ora a questa parte, sembrava intrufolarsi nella sua testa di continuo?

Un’altra fitta di dolore segnò la fine di quella discussione interiore. Ancora più giù di morale ed amareggiato del solito, Focaccia usci di casa per controllare la situazione. Per precauzione, prese il fucile. Stranamente, Cavallone non si era posto alcuna domanda riguardante ad esso, sin dal loro primo incontro. Era forse intimorito? O non aveva mai visto un fucile in vita sua? 

Focaccia si diresse sopra la piccola montagnetta di neve situata ad Est della stazione. Doveva monitorare il tempo, più per Cavallone che per sé.

Sfortunatamente delle nuvole che non lasciavano presagire nulla di buono si erano radunate all’orizzonte. Doveva necessariamente trovare un riparo per Cavallone, o una tempesta di neve sarebbe stata troppo anche per lui. 

All’improvviso si accese una lampadina nella testa di Focaccia. Una strada si dipanò partendo dai suoi piedi e puntando verso Ovest.

Focaccia sentì nuovamente quella sensazione di disagio, ma la necessità di trovare un riparo era tale da costringerlo a posporre qualsiasi problema.

Arrivato vicino a Cavallone, che intanto aveva trangugiato velocemente quel poco cibo che gli era stato offerto, Focaccia fece si fece intuire con un cenno deciso della testa: bisognava trovare un rifugio.

Il viaggio durò relativamente poco. Focaccia conosceva la strada, ma non ricordava assolutamente di averla appresa in primo luogo. Dove stavano andando? Una sensazione di falsa sicurezza, quasi come se gli fosse stata forzata in gola, attraversava il suo corpo.

Non riuscendo completamente a scollarsi la sensazione di disagio, decise di fare una piccola deviazione per salire su una postazione sopraelevata. Quantomeno, avrebbe avuto una visione completa della vallata glaciale in cui erano, a quanto pare, diretti. 

Ed ecco che accade.

Un toro.


Torretta non si era mai sentita ad agio nel suo corpo. Nata toro, il suo carattere sin da bambina era decisamente effemminato. Non che ciò rappresentasse qualcosa di negativo. Tutt’altro. Lui si sentiva a posto con sé stesso, e non dovendosi fare eccessivi problemi in quanto toro, viveva in tranquillità nel Ranch. 

Si sorprese del fatto che gli altri tori non si opposero alla sua plateale manifestazione di femminilità. Passava tutto il tempo a parlottare con le mucche, ma i suoi simili non lo fecero mai sentire a disagio per la sua attitudine.

Purtroppo, questa situazione idilliaca venne brutalmente infranta dai piani degli uomini.

“Il toro deve fare il toro, altrimenti non serve assolutamente a nulla!” dicevano.

Torretta non capiva, ma poteva soltanto trovare curiose queste persone, che non riuscivano a vedere il mondo per quello che effettivamente era, ma erano offuscati da questa voglia di sfruttare a loro vantaggio qualsiasi essere vivente ed oggetto inanimato presente sul pianeta Terra. 

Un filo egocentrici, si direbbe. 

E-

Torretta si ritrovava, senza alcun ricordo della sua vita precedente, sopra un’altura ghiacciata. La morsa del freddo le faceva sentire un dolore lancinante in svariate parti del corpo, ma non riusciva a muoversi.

Perché l’unica cosa che provava era un misto di ammaliamento e paura. Perché Torretta aveva paura delle altezze, ma allo stesso tempo… le adorava.

Il problema era che proprio il motivo per cui sentiva questo sentimento d’amore assolutamente irrazionale verso le strutture elevate, unito quasi ironicamente alle vertigini. 

Non ricordava nulla, se non che c’era una persona che avrebbe risolto ogni problema.

“Il Mastro!” esclamò con la sua tipica r moscia.

”…cosa hai detto?” replicò Focaccia, che ancora doveva metabolizzare la scena.

“Risolverà ogni nostro problema, ne sono assolutamente certo! Anzi, me lo sento. E’ come se fossi nata per questo preciso momento!” esclamò presa da una eccitazione frenetica Torretta.
Cavallone non era dotato di una grande intelligenza, ma quelle parole lo colpirono. Non si domandò neanche lui del motivo per cui potevano parlare

“Vista la nostra situazione, direi che c’è ben poco da fare se non affidarci al Mastro. Ma chi sarebbe, di preciso?“ 

Torretta cercò di mettere insieme una frase di senso compiuto, e dopo un paio di minuti di silenzio tutt’altro che rincuorante, disse “è il maestro delle “O”. Non si capisce dal nome?”

Non faceva una piega.

“E dove possiamo trovarlo?” Chiese Focaccia, titubante e sospettosa.

“Ma come, è lì!” Torretta iniziò a rotolare giù dall’altura. Arrivata alla sua base, si mise a correre verso il centro della vallata di ghiaccio. Cavallone, trasportato da quella inaspettata convinzione, si buttò a capofitto, scarpagnando giù per la cavedagna.

Effettivamente, guardando con attenzione, si notava un filo di fumo alzarsi, lento ma costante. 


CAPITOLO O: OTTO

Focaccia non poteva abbandonare Torretta e Cavallone. Era il motivo per cui… forse no. Esisteva un motivo per tutto ciò?

Un sorriso ebete e tirato, come da delle mani invisibili, gli si stampò in faccia.

Tanto valeva provare, no?

Raggiunto il Mastro, Focaccia notò come Cavallone e Torretta erano rimasti seduti. Sanguinanti, malconci, stanchi, ma ammaliati dal Mastro, che si scaldava vicino al fuoco.

Il cielo sopra di loro, era invaso dalle macchie colorate dell’aurora boreale. Si era fatta notte. Eppure, quando Focaccia era partita, non era passato da molto mezzogiorno. Ma ormai questo, ovviamente, non contava più.

Zampata dopo zampata, Focaccia si avvicinava ai suoi due compagni di viaggio.

Che storia che avrebbe potuto raccontare, se soltanto non avesse troncato i contatti con i suoi simili. Già, forse era proprio quello il problema. Una storia.

Non fece in tempo a rifletterci su, che una strana sensazione di libertà iniziò a pervadere il suo corpo.
Era abbastanza vicino al Mastro, ed adesso poteva comprendere il comportamento degli altri due. Era la cosa più normale da fare.

Il suo corpo, come quello di Cavallone e Torretta, aveva iniziato… a schiarirsi. Stavano diventando della stessa sostanza delle nuvole?

Eppure era una sensazione così bella. Liberi dai limiti, la loro storia era giunta a compimento. E stavano venendo congedati. 

Il Mastro, un uomo anziano, indescrivibile in quanto così anonimo da richiedere un sensibile sforzo di concentrazione anche solo per tenerlo a fuoco, proferì parola:

“Oh, Orsù, Orbene…”

Crack

Se si potesse inviare una sonda per registrare il suono avvenuto con lo scoppio del Big Bang, probabilmente, si sentirebbe qualcosa di simile.

Il mondo, come era venuto alla luce, era stato strappato, fatto letteralmente a brandelli.

La storia non funzionava. Era semplicemente insensata.
Giocare con vezzeggiativi, dispregiativi e chi più ne ha più ne metta, era un’idea interessante, ma soltanto su carta. O forse, bisognerebbe dire nella testa.

Lo sviluppo aveva provato indiscutibilmente che non Lui non riusciva a cavare un ragno dal buco.

Che senso aveva pubblicare una storia, che semplicemente si sviluppava senza tenere conto dei canoni narrativi più famosi? L’assenza dei dialoghi corretta solo alla fine, in modo frettoloso, senza spiegare come mai gli animali riuscissero ad intendersi l’un l’altro. Il tentativo di distogliere volontariamente gli animali dal pensare al loro destino.

La creazione del Mastro… Il tempo perso a riflettere, forse più di un’ora, per creare un discorso di senso compiuto. Ed alla fine di tutto quel brainstorming, il nulla più totale.

Era meglio ripartire da zero, strappare pagina e ricominciare.
Eppure, Lui pensò… si era affezionato a quegli animaletti. Sentiva un attaccamento emotivo. Era sostanzialmente il loro Dio, e gli aveva spinti fino al confine senza dar loro spiegazioni o soluzioni. Fino a strapparli letteralmente via dal quaderno.

Forse… ma no è una idea troppo folle.
No, magari può starci.

Chissà, proviamo e vediamo cosa esce.

E se provassi a mettere per iscritto questa sensazione? Di uno scrittore che non riesce a concludere la propria storia, con dei personaggi completamente assurdi e campati in aria?

Un’idea decisamente vincente.


PROLOGO: MATTINO